Arricare al cuore

A PROPOSITO DEL RACKET SUGLI IMMIGRATI

O

ltre le illusioni su «l’immigrato»
Un modo classico per cercare di comprendere un conflitto sociale al fine di intervenirvi è scrutare con minuzia i suoi protagonisti e sottoporli a una serie di analisi sociologiche di stampo più o meno militante. Analisi che, a parte una qualche utilità per approfondire il misterioso «chi sono loro?» e per interrogarci su ciò che vogliamo noi, risultano il più delle volte inattendibili, perché gravate da dogmi che impediscono una riflessione critica.

Se i rackettari della sinistra sono alla disperata ricerca di un qualsivoglia soggetto politico in grado di condurli alla testa di una contestazione, ce ne sono tanti altri che s’impegnano sinceramente al fianco dei senza-documenti. Solo che, considerando la loro particolare situazione come esterna, sono spesso spinti più dall’indignazione che dal desiderio di lottare con quanti condividono una data condizione, anche se non identica: fatta di sfruttamento, di controllo poliziesco, di case fatiscenti nei medesimi quartieri o in periferia, di illegalità come strumento per il proprio sostentamento. Gli uni come gli altri non di rado riproducono alcune separazioni funzionali al dominio. Ricreando la generica figura dell’immigrato-vittima-in-lotta con le sue peculiarità, si introduce infatti una mistificazione sociologica che finisce per ostacolare ogni lotta comune, e per di più rafforza l’influenza dello Stato su ciascuno di noi.

Troppo spesso gli attivisti libertari o radicali, benché mossi da una qualche intuizione di quello che potrebbe diventare un percorso comune, a loro volta non esitano a mandar giù questa pillola nel nome della loro voglia di collettivo o dell’autonomia delle lotte, come se questa fosse condotta da un blocco omogeneo e non da individui, da potenziali complici, perlomeno di fronte ad una specifica oppressione. Alcuni metodi di lotta (l’autorganizzazione, il rifiuto delle mediazioni istituzionali, l’azione diretta) diventano d’un tratto relativi quando ci si rapporta coi senza-documenti. Riprendendo alcuni classici della diatriba militante, c’è sempre qualche buon samaritano che spiega che fracassare la vetrina di una compagnia aerea complice delle espulsioni durante una manifestazione di senza-documenti li potrebbe mettere «in pericolo», loro che quotidianamente sfidano la sbirraglia; o che la lotta contro i fascisti (come i membri dei Lupi Grigi turchi), i nazionalisti (come certi rifugiati che arrivavano all’epoca dello smembramento della ex-Jugoslavia) o i prelati (da quello che “accoglie” i clandestini nella “sua” chiesa prima di espellerli; alle associazioni caritatevoli incaricate di infime opere dallo Stato come la Cimade, la Caritas internazionale o la Croce Rossa) si deve arrestare alla porta dei collettivi dei senza-documenti; che si può sputare in faccia a un ambasciatore francese o belga, ma non a un ambasciatore del Mali mentre sta mediando una lotta che minaccia di radicalizzarsi (idem per tutti i politicanti di sinistra, in genere non graditi, ma talvolta tollerati nel nome della falsa unità richiesta da qualche leader di un collettivo di senza-documenti).

Se ognuno è consapevole che la lotta parte dall’esistente e che le iniziali differenze sono spesso determinanti (prendiamo solo il rapporto coi sindacati nella maggior parte delle lotte legate allo sfruttamento), la questione per noi riguarda appunto il loro superamento in una dinamica sovversiva, cosa che non potrà di certo avvenire accettando le varie gogne autoritarie, essendo il fine già contenuto nei mezzi che ci diamo. Tanto più che questo relativismo non porta a un confronto all’interno della lotta, ma ad una sorta di colonialismo alla rovescia, a reificare gli immigrati in una presunta alterità («loro» sarebbero così). Così la miseria diventa una giustificazione della rinuncia.

Una delle figure più significative di questo riduzionismo ideologico è quella dell’«immigrato innocente», l’eterna vittima passiva, sfruttata, acciuffata, imprigionata e poi deportata. Come reazione alla quotidiana propaganda razzista che mira ad attribuire agli immigrati il ruolo di nemici sociali colpevoli di tutti i mali (dalla disoccupazione all’insicurezza passando per il terrorismo), si finisce di fatto col negar loro qualsiasi capacità criminale. Li si vorrebbe tutti docili, a mendicare la propria integrazione in vista di un posto un po’ meno abietto nella comunità del capitale. Così migliaia di rifugiati vengono trasformati in vittime arrendevoli, quindi integrabili: vittime di guerre, di catastrofi “naturali” e della miseria, di trafficanti di esseri umani e di mercanti senza scrupoli. Ciò significa non considerare che questi percorsi trasformano anche gli individui, creando solidarietà, opposizione e lotte che permettono a qualcuno di spezzare la passività cui sarebbe destinato.

Così, quando accade che alcuni “innocenti” si difendano con le unghie e con i denti contro un destino già scritto (con rivolte nei centri di detenzione, scontri durante le retate, scioperi selvaggi…), allora lo sconcerto e il silenzio imbarazzato si fanno largo negli ambienti della sinistra e dell’antirazzismo democratico. Quando la rivolta si esprime in modo collettivo, possono ancora ancora «comprendere quei gesti di disperazione», ma un singolo prigioniero che decidesse di dar fuoco alla sua cella verrebbe immancabilmente descritto come un “folle” che per di più non ha nulla a che fare con la “lotta”. Passi per degli scioperanti della fame in una chiesa, ma non sono presentabili degli incendiari o degli evasi dai centri di detenzione; sono accettabili i defenestrati o gli annegati, meno i clandestini che resistono alla polizia; si aiutano volentieri i genitori di bambini in età scolastica, assai meno i rapinatori scapoli. Perché la rivolta e gli individui che si ribellano non rientrano in quel quadro sociologico del migrante-vittima dipinto dalla buona coscienza militante con l’appoggio dei parassiti di Stato universitari.

Per comprendere alcune dinamiche di tali lotte, dovremmo gettare alle ortiche alcune confortevoli illusioni. La critica a un determinismo che ha dimostrato il proprio fallimento nel vecchio movimento operaio vale anche per i proletari che emigrano in questa parte del mondo. Per molti di loro l’Occidente è percepito come un’oasi in cui è possibile vivere bene, a patto d’essere disposti a darsi da fare. Subire condizioni di sfruttamento simili a quelle da cui si sta fuggendo, con padroni che sanno anche servirsi di un paternalismo d’appartenenza a una presunta medesima comunità, essere braccati, non avere molte prospettive di salire nella scala sociale e vivere un razzismo latente che tenta di canalizzare il malcontento degli altri sfruttati, significa confrontarsi con una realtà ancora più dura. Di fronte alla rassegnazione che può nascere da questo doloroso confronto, o di fronte alla reclusione in comunità autoritarie fondate ad esempio sulla religione o sul nazionalismo, la prospettiva è allora di legarsi non con tutti i senza-documenti in modo generico, ma con quelli che, rifiutando di conformarsi a un destino di sfruttamento, si muovono anche verso l’identificazione del nemico. Dimodoché all’imbroglio tra l’universalismo capitalista e i particolarismi si contrapponga una guerra sociale in cui poter riconoscersi, superando la questione dei documenti e il diverso livello di sfruttamento, in una lotta continua verso una società senza padroni né schiavi. Insomma, come in qualsiasi altra lotta, se troppo spesso non fosse gravata dal peso degli affetti colpevolizzanti, dall’urgenza di evitare un’espulsione o dalle possibili conseguenze e, soprattutto, da un rapporto il più delle volte non stabilito sulla base di una rivolta condivisa.

Lo stallo delle lotte per regolarizzare
L’inizio del nuovo secolo è stato segnato da ondate di regolarizzazioni «massicce» in diversi paesi europei. Se lo Stato persegue una propria logica, i senza-documenti hanno saputo, con la propria lotta, aprirsi un varco e influenzare i criteri di regolarizzazione o accelerarne il ritmo. Avevamo assistito a un simile fenomeno con le «grandi leggi sociali», alcune delle quali conquistate col sangue, altre per acquisire la pace sociale o semplicemente concesse in funzione dei bisogni del capitale, per fissare la manodopera e accrescere il consumo interno. Il dibattito infuriava allora in seno alla classe operaia, fra rivendicazioni che accompagnavano o anticipavano il movimento del capitale da un lato e tentativi insurrezionali dall’altro. Numerosi rivoluzionari non accettavano quelle rivendicazioni se non con un fine di agitazione permanente insistendo che la questione sociale non può essere risolta in un quadro capitalista.
Prima delle ondate di regolarizzazione, gli Stati erano di fatto divisi tra due contraddizioni: da una parte l’afflusso più importante di immigrati irregolari rispondeva a un bisogno reale di manodopera flessibile (edilizia, ristorazione, pulizie, agricoltura, alberghi, servizio domestico) in economie con una popolazione sempre più anziana; dall’altra questa massa in parte misconosciuta (in paesi come la Spagna e l’Italia, meta di recente immigrazione), ma soprattutto per natura assai meno gestibile, ostacolava una drastica gestione dell’ordine pubblico. Se tale punto è stato trattato con rapidità, in particolare grazie ad una più stretta collaborazione fra le diverse autorità (sia attraverso scambi di servigi tra imam e prefetti che attraverso una ripartizione di compiti tra le diverse mafie immigrate e autoctone, malgrado qualche iniziale evento di sangue dovuto all’inevitabile concorrenza), la questione del bisogno di manodopera è stato risolto da una correlazione più stretta fra flussi migratori e mercato del lavoro. Questa forma che lega direttamente il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro per i nuovi arrivati si aggiunge alla classica forma di lavoro per migranti, il lavoro in nero, che via via sarà sostituita nel quadro di una riorganizzazione del precariato esteso a tutti.

Lo Stato ha così quasi azzerato il riconoscimento dell’asilo politico, reso più difficile il ricongiungimento familiare o l’acquisizione della cittadinanza col matrimonio, soppresso i permessi di lungo soggiorno, mentre ha allungato il suo pugno di ferro nei confronti dei clandestini.
Si è tornati ai tempi in cui i sergenti-reclutatori dei padroni caricavano sui camion gli immigrati raccolti nei villaggi in funzione delle proprie necessità. La formula moderna vuole semplicemente una razionalizzazione del reclutamento alle frontiere in cogestione tra gli Stati e i datori di lavoro, non essendo la manodopera destinata a rimanere e ad installarsi. Nel contempo i diversi Stati costruiscono alle frontiere esterne d’Europa campi di prigionia per quelli che non avranno avuto la buona creanza di essere scelti dai nuovi negrieri.

Poi ci sono tutti gli altri. Tutti quelli che non hanno trovato le porte aperte e quelli che continuano ad arrivare. Qua si delinea la posta in gioco dei progressivi cambiamenti del sistema di espulsione che, per quelli che avranno superato la barriera delle zone d’attesa e il racket degli scafisti e le altre mafie, parte con le retate, continua con la moltiplicazione dei lager e termina con deportazioni sempre più massicce, in palio quote nazionali o charter europei. Nessuno si faccia illusioni: finché persisteranno le cause economiche, e malgrado tutti i dispositivi del mondo (ad esempio, alla frontiera tra il Messico e gli USA stanno costruendo un muro di 1200 chilometri) che renderanno solo più problematico il passaggio e più alto il numero dei morti, il numero dei migranti clandestini continuerà ad aumentare. E soltanto con una moltiplicazione delle deportazioni lo Stato potrà realmente applicare le proprie leggi in materia di allontanamento forzato dal territorio. E sia chiaro che il principale obiettivo di quei dispositivi non è l’espulsione di tutti i senza-documenti, ma è terrorizzare l’insieme della manodopera immigrata (quella regolarizzata e quella selezionata per soggiorni sempre più brevi), al fine di mantenerla in condizioni di sfruttamento simili a quelle da cui è fuggita (una sorta di delocalizzazione interna), esercitando una pressione al ribasso sulle condizioni di sfruttamento. Quanto al pretesto razzista, serve a dispiegare un arsenale di controllo sociale che coinvolge tutti.

La situazione attuale, col ciclo occupazioni/scioperi della fame/espulsioni, ci ha inchiodato in questi anni all’interno di esperienze di lotta che offrono ben poche possibilità di superamento in una prospettiva che possiamo condividere: di esperienze di autorganizzazione che non tollerino né politicanti né leader sindacali o religiosi, di azioni dirette che permettano di creare un rapporto di forza reale e di identificare il nemico di classe in tutti i suoi aspetti. Questa constatazione ci pone di fronte al bisogno e al desiderio di sviluppare una progettualità sovversiva su basi nostre invece di andare alla ricerca di un superamento, che appare sempre più distante, di lotte basate sulla richiesta di regolarizzazione. Questa progettualità potrebbe trovare i suoi punti di forza primari nella rivolta di fatto condivisa tra chi lotta per la distruzione dei lager e chi ha messo in pratica la critica della detenzione appiccando il fuoco alla propria prigione.

Contro la macchina delle espulsioni
Di fronte a queste difficoltà è nato un dibattito che ancora è in corso, quello sulla solidarietà. Molti compagni difendono l’assoluta necessità di una nostra presenza in seno ai gruppi di migranti, almeno finché, rospo dopo rospo, finiranno per ritirarsi disgustati da ogni lotta di questo tipo. Le motivazioni sono diverse e spesso sono contraddistinte dal comfort di ricette senza immaginazione o da un attivismo movimentista più che da un reale desiderio di sovversione. Anche qui, se il carattere collettivo di un’azione non è per noi un criterio, comprendiamo il bisogno che possono avvertire alcuni compagni di «rompere l’isolamento». Tuttavia, dubitiamo che ciò possa avvenire ritrovandosi a fare interminabili riunioni in una trentina di persone all’interno di uno squat o in una sede insieme a senza-documenti e a gente di sinistra. Siamo assai più inclini a sviluppare un progetto nostro e quindi ad incontrarci su basi nostre.

Finché la solidarietà sarà concepita come un sostegno nei confronti di determinate categorie sociali, resterà un’illusione. Anche se si dotasse dei metodi più radicali, resterà al rimorchio di una lotta di cui né le basi, né i metodi, né le prospettive ci riguarderanno. L’unica giustificazione sarebbe la pretesa che, partecipando a queste lotte, le persone si possano «radicalizzare» dato che la loro condizione sociale non può che condurli a condividere le nostre idee. Ma, fin quando il concetto di «radicalizzazione» sarà concepito come un lavoro fatto da missionari intenzionati a far trangugiare le proprie idee agli altri, resterà nello stallo che si sta diffondendo dappertutto. La «radicalizzazione» può essere vista come un’apertura verso gli altri solo conservando l’autonomia della propria progettualità. Ma questo esige che, per stare «insieme» in una lotta e avanzare sia come prospettiva che come metodi, ci sia già un’affinità di base, una prima rottura, un primo desiderio che vada al di là delle solite rivendicazioni. Così la nostra esigenza di reciprocità potrebbe acquisire un senso. Invece di trascinare un rapporto la cui sola ragione d’essere è mantenere la finzione di un soggetto politico che avrebbe, nel nome del suo status di vittima, il monopolio della ragione e quindi della lotta, ci restano ben altre strade da esplorare.

Si potrebbe dire che la solidarietà necessita di un riconoscimento reciproco in atti e/o idee. È difficile essere solidali con un clandestino «in lotta» che rivendica la propria regolarizzazione e quella della sua famiglia senza essere in alcun modo interessato ad una prospettiva di distruzione dei centri di detenzione. Magari ci si potrà incontrare di fatto, ma si tratterebbe di una mera base pratica: non abbiamo bisogno di analizzare i motivi e le prospettive che spingono qualcuno a rivoltarsi per riconoscerci almeno in parte nei gesti di attacco che colpiscono direttamente i responsabili di questa miseria. Lo stesso vale per la maggior parte delle lotte intermedie: il nostro interesse di partecipare a una lotta in fabbrica che parte da rivendicazioni salariali e non oltrepassa l’inquadramento sindacale né sviluppa il minimo germe di azione diretta è molto limitato. Limitato perché semplicemente non c’è una base su cui ritrovarsi. Qualora quegli stessi operai passassero al sabotaggio (anche se lo considerassero un mero strumento per fare pressione sul padrone) o mettessero alla porta i loro delegati (anche se spinti soltanto dal sentirsi traditi), si aprirebbero nuove possibilità comuni…

Perché continuare coi soliti slogan sempre più vaghi di «solidarietà con gli immigrati/in lotta» (quale lotta)? Proviamo a sviluppare una progettualità contro i centri di detenzione con metodi e idee che siano nostri. Una progettualità sovversiva, che sappia cioè rimettere in discussione i fondamenti di questo mondo (lo sfruttamento e il dominio). Una progettualità che sia autonoma, che verrebbe rafforzata e a sua volta rafforzerebbe tutti i gesti di rivolta che si smarcano profondamente dalla rassegnazione generalizzata. Ancora una volta, se non esistono ricette, è importante oggi uscire dallo stallo di un attivismo più o meno umanitario che mette in sordina ogni autonomia radicale a vantaggio di un’agitazione che segue le scadenze del potere o le logiche dei soli “legittimi” attori delle lotte, mentre è in gioco la libertà di tutti. Ed è altrettanto importante proporre delle prospettive che, al di là degli obiettivi parziali sviluppati nelle lotte intermedie, siano capaci di estendere la questione proponendo un orizzonte che rimetta finalmente in discussione l’insieme di questo mondo e i suoi orrori. Gli attacchi diffusi sono determinanti per questa progettualità, offrendo non solo il vantaggio di superare l’impotenza che avvertiamo davanti alle mura e al filo spinato di un lager o di fronte a un dispositivo poliziesco in materia di retate che sa adeguarsi e conta sulla passività e la paura dei passanti, ma anche e soprattutto l’interesse di poter sviluppare un nostro percorso temporale, che mostri a tutti la vulnerabilità dei dispositivi della macchina da espulsione che troviamo in ogni angolo di strada, e offra concrete possibilità d’azione a ciascuno, qualunque sia il numero.

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