Su alcune vecchie questioni d’attualità fra gli anarchici, e non solo

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Su alcune vecchie questioni d’attualità fra gli anarchici, e non solo

Non sono certo un non-violento. Tuttavia posso capire chi odia la violenza al punto da volerla bandire dalla propria vita; chi non ucciderebbe mai, chi non userebbe mai la forza per farsi valere; chi, per carattere e attitudini personali, preferisce non farvi ricorso. Ma tutto ciò lo trovo comprensibile solo se si tratta di una scelta individuale e conseguente. Quando la non-violenza viene presentata come metodo di lotta, quando viene proposta come strada da seguire, quando da etica individuale diventa morale e progetto collettivi, mi sembra davvero una cialtroneria, utile solo come giustificazione all’inazione ed ostacolo a chi si rivolta, valore assoluto da ricordare ai deboli per permettere ai potenti di dimenticarlo con più comodità. Sull’orlo del baratro, col terreno che si fa via via più sdrucciolevole e sotto il fuoco del nemico, l’invito ad usare solo le buone maniere non può che apparire tale. Lo faccia pure chi lo vuole, ma si risparmi le prediche.

Detto questo, non sono nemmeno un fanatico della violenza. Non amo chi si vanta delle proprie prodezze in tale ambito, non giustifico la sua apologia fine a se stessa, detesto chi la considera l’unica soluzione. La ritengo una necessità nella lotta contro il dominio, ma nulla di più. Nemmeno io, come Malatesta, credo ai «placidi tramonti». Non credo che il cemento armato con cui il potere ha coperto le nostre esistenze si scioglierà allo sbocciare del fiore della libertà, amorevolmente piantato dalla diffusione delle nostre idee.

Proprio perché non sono un non-violento, non sopporto le condanne moralistiche degli atti di violenza. La loro ipocrisia mi dà la nausea. Ma proprio perché non sono un fanatico della violenza, non sopporto nemmeno l’esaltazione acritica di questi atti. La sua stupidità mi dà sui nervi.

Di recente è stato dato grande risalto alle azioni di attacco compiute da ignoti compagni, contro la Questura di Genova prima e contro il regime penitenziario spagnolo poi. Scontata la reazione isterica dei media e scontata sarà anche la reazione della polizia. Ma qual è la reazione dei compagni? A parte i soliti imbecilli dediti alla dietrologia, la reazione più comune è quella del silenzio. Silenzio dovuto, per evitare di compiere distinzioni tra favorevoli e contrari che risulterebbero utili solo alle indagini poliziesche. Però da troppo tempo questo silenzio non si limita a regnare nei giorni successivi agli attentati, protraendosi ben al di là. Non è più il silenzio di fronte al nemico che vorrebbe sapere, è il silenzio anche fra compagni che vorrebbero intendersi. Dalla presenza di una forma di solidarietà minima si è passati all’assenza di ogni discussione critica. Ma perché mai l’azione, quale essa sia, non dovrebbe essere sottoposta a riflessione critica? Perché un ipotetico dibattito su argomenti del genere viene percepito come un ostacolo, come qualcosa che mira a prevenire simili azioni? Perché non potrebbe essere invece un sostegno, un modo per chiarire il senso di ciò che si vuole fare, per potenziare ed affinare l’azione?

Da parte mia, prendendo come spunto i recenti avvenimenti, ho deciso di scrivere e diffondere questo testo. La sua forma anonima non è dovuta al timore di assumermi le responsabilità delle mie parole, ma è solo un modo per non differenziarmi dagli altri compagni agli occhi di lorsignori.

Rivendicazione si, rivendicazione no

Che io sappia, ma potrei sbagliarmi non essendo un esperto in materia, per trovare il primo documento di rivendicazione di un attentato da parte di una organizzazione rivoluzionaria bisogna risalire alla Russia del 1878. Si tratta dell’opuscolo Smert‘ za smert‘ (Morte per morte) diffuso dal gruppo „Narodnaja Volja“ (Volontà popolare) dopo l’uccisione del generale Mezencov, capo della polizia segreta russa. L’opuscolo di rivendicazione venne recapitato, tredici giorni dopo l’omicidio, a un quotidiano di Pietroburgo e nei giorni successivi molte altre copie vennero fatte pervenire, in altre città, a numerosi funzionari governativi. All’epoca questa azione fece grande sensazione e – naturalmente – non mancarono le critiche di chi pensava che il ricorso a simili mezzi non potesse né sostituire né affiancare il più importante strumento di propaganda delle idee di rivolta fra le masse.

Da allora questa scena si è ripetuta centinaia di volte. I dettagli, ovviamente, mutano di volta in volta ma la sostanza non cambia. Si potrebbe quasi dire che l’esperienza di quei rivoluzionari russi sia diventata una specie di archetipo, di modello originale le cui manifestazioni successive nella realtà non sono che filiazioni o imitazioni. La sola variante, all’interno di questo schema, l’hanno apportata quegli anarchici che non hanno mai ritenuto necessario rivendicare politicamente le proprie azioni di attacco contro il potere. Il gruppo russo „Volontà popolare“, infatti, pur raccogliendo „militanti“ delle idee più svariate, si poneva comunque come avanguardia centralizzata. All’interno di questa organizzazione, come ricorderà nelle sue memorie una militante, si discuteva se il programma da seguire dovesse essere quello di «costringere il governo a consentire al popolo di esprimere liberamente e senza ostacoli la propria volontà e ricostruirne la vita politica ed economica… oppure se l’organizzazione dovesse tendere dapprima a prendere il potere nelle proprie mani, per poi decretare dall’alto una costituzione favorevole al popolo».

Con simili premesse si capisce bene il loro bisogno di rivendicare, di comunicare le ragioni delle proprie azioni alle masse che intendevano elevare e al nemico di cui si consideravano controparte. Dopo tutto quel gruppo

voleva rivolgersi al popolo, per quanto quasi tutti i suoi membri provenissero dalle classi più agiate, e doveva trattare in suo nome con il potere costituito, arrivando ad inviare una lettera all’erede dello zar per dargli consigli sulla politica da seguire.

Ma quando non si vuole rappresentare nessuno, né ci si pone come controparte di qualcuno, perché diffondere comunicati? Se si pensa che le azioni di attacco contro il potere debbano comunque avere come orizzonte la rivoluzione sociale, e non esserne la parodia sotto forma di lotta armata contro lo Stato (lottarmatismo), quale può essere lo scopo di una organizzazione armata specifica?

Non mi sembra che in passato gli anarchici si siano distinti per aver fatto ricorso alla rivendicazione. Non lo fecero, per ovvi motivi, quegli anarchici che si sacrificarono compiendo il proprio gesto individuale come Bresci o Caserio. Non lo fecero i singoli compagni che pure erano intenzionati a intraprendere un’attività più continua, come Ravachol o Henry, né i compagni che si unirono assieme ad altri nell’azione armata: non lo fece Di Giovanni, non lo fecero Durruti e Ascaso. E i motivi dovrebbero essere quasi scontati. Desiderando una rivoluzione che provenisse dal basso, non imposta o lanciata dall’alto, tutti questi anarchici hanno ritenuto opportuno agire nell’ombra tenendosi alla larga da tutto ciò che potesse elevarli alla ribalta. Preferivano che le ragioni delle proprie azioni provenissero dal basso, che fosse il movimento stesso ad esprimerle, anziché approfittare del clamore suscitato per diffonderle dall’alto, come il messaggio ufficiale di chi ha fatto rivolto a chi non ha fatto. Il significato di una azione, se non era reso chiaro dallo stesso contesto sociale, lo si poteva trovare sui volantini, sui giornali, sulle riviste e nell’intero dibattito teorico sviluppato dal movimento, nel suo insieme, non sui comunicati di una sua singola organizzazione. Faccio un esempio: se il movimento è in grado di esprimere la sua critica teorica al carcere, quando qualcuno poi passa alla critica pratica non c’è bisogno di farci sopra un comunicato che ne spieghi le ragioni. I motivi del suo gesto sono già chiari, già comprensibili. Quando qualcuno vuole attribuirselo è solo perché vuole mettersi in mostra, esporre la propria identità, farsi avanti. L’attacco contro la questura di Genova, ad esempio, era talmente significativo (per scelta dell’obiettivo e del momento) da rendere superflua ogni parola. Perché è stato diffuso un comunicato che non poteva che dire banalità?

È vero che il caso dell’Angry Brigade costituisce una specie di eccezione, trattandosi pur sempre di anarchici che rivendicavano le proprie azioni. Non a caso, proprio quella esperienza sembra costituire una specie di modello per molti compagni che oggi attaccano il potere. Eppure, a meno di volere lanciarsi in atteggiamenti di emulazione, l’esempio non mi sembra davvero riproponibile. Da un lato è impossibile non tenere presente che 1’Angry Brigade va inserita nel contesto storico in cui è maturata, cioè all’inizio degli anni ’70. In un’epoca in cui numerosi gruppi stalinisti seminavano terribili mattoni ideologici per propagandare il proprio progetto politico e si apprestavano ad egemonizzare la dimensione dell’attacco armato, non mi sembra strano che qualche anarchico si sia voluto distinguere per non correre il rischio di portare involontariamente acqua al mulino altrui. Dalla scelta del nome, a quella di alcuni obiettivi, allo stile dei suoi comunicati, tutto tendeva a differenziarsi dal marasma circostante. Ma una volta trascorsa la piena ideologica stalinista, che può rendere significativa la decisione di caratterizzarsi in senso anarchico, che senso avrebbe continuare questa rappresentazione di se stessi? Forse in paesi come la Spagna, dove tutte le azioni, comprese quelle anonime, vengono puntualmente attribuite all’Eta, ma non certo qui in Italia. Per anni infatti le azioni di attacco non hanno partorito nessun comunicato, se non talvolta qualcosa di breve, semplice e che rifiutava l’uso di qualsiasi sigla identitaria. Dovrebbe essere superfluo spiegarne le ragioni: un’azione può appartenere a tutti solo se nessuno se la attribuisce. Nel momento in cui viene rivendicata con una identità si crea una separazione fra chi l’ha compiuta e tutti gli altri. Inoltre, non dovrebbe nemmeno essere necessario ricordare il pericolo insito in ogni rivendicazione. È pericoloso consegnarla, è pericoloso spedirla, è pericoloso soprattutto scriverla poiché più si scrive e più indicazioni si forniscono alla polizia (pericolo tutt’altro che ipotetico, visto che esiste almeno un precedente negativo che ha colpito proprio compagni anarchici). Un attacco anonimo non permette a nessuno di emergere e non facilita l’opera di repressione da parte della polizia.

Se queste ragioni che suggeriscono l’anonimato sono state più volte espresse, quelle che lo sconsigliano invece no. Da qualche anno a questa parte le cose sono cambiate senza che ci sia stato un dibattito che abbia fatto comprendere i motivi di un simile cambiamento (che per questo appaiono oscuri, più legati a reazioni emotive che a scelte precise). Ad ogni modo oggi è ben difficile che un’azione non venga accompagnata dal suo bel comunicato ufficiale, coi suoi slogan e la sua firma in calce. E perché? Silenzio… E poi così facendo non si finisce nell’avanguardismo? Il rischio è talmente evidente che fra gli stessi estensori di rivendicazioni c’è chi si proclama contrario a ogni avanguardismo, nella speranza che sia sufficiente dirlo per esserlo. Ma chi si scusa si accusa. È il metodo usato in sé ad essere avanguardista e, talvolta, pure i contenuti esplicitamente dichiarati (come dimostrato dall’affliggente comunicato di ARA dopo l’attacco a Palazzo Marino). Poco importa se gli slogan incitano alla guerra sociale anziché alla dittatura del proletariato. Poco importa se le firme cambiano in continuazione. Ciò dimostra solo che gli „avanguardisti“ anarchici sono più elastici rispetto a quelli stalinisti, ma sentono comunque il bisogno di caratterizzarsi dal resto del movimento.

Non basta prendere spunto dall’Angry Brigade per risolvere il problema. So bene che l’Angry Brigade affermava «Non siamo in grado di dire se una singola persona sia o non sia un membro della Brigade. Possiamo solo dire che la Brigade è ovunque. Senza qualsiasi Comitato Centrale e nessuna gerarchia per classificare i nostri membri, possiamo solo riconoscere gli sconosciuti come amici attraverso le loro azioni». So pure che i suoi partecipanti non si consideravano un’organizzazione o un singolo gruppo «ma un’espressione della rabbia e dello scontento che molta gente, in tutto il paese, ha contro lo Stato e le sue istituzioni. In questo senso 1’Angry Brigade è sempre presente (l’uomo e la donna che sono seduti accanto a te)». Ma tutto ciò testimonia solo la buona fede di questi compagni, la loro preoccupazione di non porsi come avanguardia, mentre non dimostra affatto che siano riusciti nel loro intento. Una sigla che voglia essere simbolo della rabbia generalizzata non ha senso. Perché tutti vi si possano riconoscere bisognerebbe che le azioni e le parole che le spiegano venissero capite e condivise da tutti. Non si può offrire una identità collettiva generica e pretendere che ciascuno rinunci alla propria individualità concreta. Lo si può fare solo se le azioni realizzate e le parole dette rimangono a un livello talmente minimo da limitare al massimo i dissensi: azioni molto semplici ed esemplari accompagnate da slogan massimalisti. Tutto ciò – ammesso che ne valga la pena – può funzionare solo per un breve periodo, dopo di ché intervengono altri fattori insiti in ogni processo di crescita che rendono impossibile la continuazione dell’esperimento: c’è chi vuole passare a strumenti più potenti, chi vuole colpire obiettivi più selezionati, chi vuole esprimere concetti più precisi… Persino l’ALF, che pure si batte per una motivazione in fondo abbastanza semplice ed univoca come la liberazione degli animali, non appena ha conosciuto una certa estensione ha visto le prime defezioni. Altri gruppi animalisti – stanchi del confusionismo del progetto, del minimalismo degli obiettivi, delle dichiarazioni dei portavoce – si sono formati. Non solo, ma, ed è l’aspetto peggiore, tutti questi gruppi si sono visti costretti a darsi un nuovo nome per evitare di essere inclusi d’ufficio nel calderone principale. Perché lo strumento rivendicativo è uno strumento prettamente politico, con tutte le nocività che comporta. Finché si resta tutti nell’anonimato si può fare quello che si vuole, senza coinvolgere o cavalcare gli altri. Ma non appena qualcuno emerge, costringe anche gli altri ad emergere pur di non venire considerati semplici colonne di un’armata. Questo meccanismo di identificazione/assimilazione si può evitare solo attraverso l’anonimato, la diversificazione dei mezzi e la fantasia nella scelta degli obiettivi, altrimenti, per quante precauzioni si possano prendere, non si potrà mai impedire ai mass-media di metterlo in moto (tanto più che con i comunicati ci si rivolge proprio a loro).

Ripeto, con ciò non penso si possa mettere in dubbio la buona fede di questi compagni, tuttavia, a mio avviso, sono vittime di un errore: pensare che un metodo diventi anarchico in virtù di chi lo utilizza. Non è così. Una organizzazione specifica, dotata della sua sigla e dei suoi comunicati, è avanguardista al di là delle singole persone che ne fanno parte. Qual è il senso di far pervenire una rivendicazione direttamente alla polizia? Qual è il senso di spiegare ciò che non ha bisogno di essere spiegato? Mitologia rivoluzionaria a parte, tutto ciò ha senso solo per una avanguardia che si percepisce come altra e migliore rispetto al movimento nel suo insieme.

Quali obiettivi?

La logica avanguardista non perdona, una volta fatta propria viene applicata in ogni cosa. Basta pensare alla scelta degli obiettivi, alla deprimente parabola che nel corso degli anni ha portato da un traliccio abbattuto anonimamente a una busta incendiaria – con lettera acclusa – spedita alla televisione. Nel primo caso si vuole sabotare il nemico, inceppare il funzionamento del suo sistema mettendone fuori uso una struttura periferica. Si tratta di una azione di attacco pratica, forse un po’ faticosa da realizzare, ma senza far correre rischi a nessuno. Nel secondo caso si vuole solo far parlare di sé, fare pubblicità alla propria ditta, e per questo ci si rivolge direttamente agli sportelli della Rai. È un’azione solo simbolica, molto più facile da realizzare, e se a correre rischi è un malcapitato dipendente delle poste o della TV… chi se ne frega. A quanto pare, che il fine giustifichi i mezzi non lo pensano solo i gesuiti ma anche qualche anarchico. E a proposito di pacchetti incendiari…

Sono stato ingiusto. Ho detto che chi li manda vuole solo far parlare di sé. Ho dimenticato di aggiungere che, autogratificazione a parte, vuole anche che si parli di qualcosa d’altro. Ad esempio, delle condizioni di detenzione di alcuni anarchici e ribelli imprigionati in Spagna. Anche i socialisti-rivoluzionari russi del 1878 condividevano una preoccupazione simile. In un loro celebre documento scrivevano: «Se la stampa non difende i prigionieri, lo facciamo noi». Oggi ci sono loro, il gruppo delle 5C. Anarchici, non socialisti-rivoluzionari. Anarchici come quella May Picqueray che nel 1921 spedì un pacco-bomba all’ambasciatore americano a Parigi per protestare contro il silenzio che pesava sopra l’incarcerazione di Sacco e Vanzetti. L’azione fu coronata da grande successo perché il sopruso compiuto dal governo americano divenne infine di dominio pubblico, rilanciando una lotta che stentava a partire.

Ma dopo aver preso atto delle similitudini presenti fra presente e passato, bisogna avere lo sguardo offuscato per non vederne anche le colossali differenze. I socialisti russi uccisero il capo della polizia segreta dopo la morte avvenuta in carcere di un loro compagno: morte per morte, appunto. L’anarchica francese, per rendere pubblica l’infamia della giustizia statunitense, colpì il massimo esponente presente in Francia del governo americano. Oggi, gli anarchici delle 5C consegnano i loro regali nientepopodimenoche ai dipendenti Rai o alle segretarie delle agenzie di viaggio spagnole. La differenza dovrebbe saltare agli occhi. Certo, i responsabili materiali del regime penitenziario che viene imposto sulla pelle dei detenuti sono lontani e probabilmente troppo ben protetti per essere raggiunti, mentre invece gli interessi dello Stato spagnolo sono ovunque e possono quindi venire colpiti. Ma questi interessi sono forse incarnati dai dipendenti che lavorano nelle agenzie di viaggio? E poiché ci si ostina a cercare l’effetto mediatico, come si può ignorare il fatto che i grandi mezzi di comunicazione amplificano le parole dei ribelli solo se possono distorcene il significato? E come non rendersi conto che simili azioni rendono fin troppo facile questa operazione di distorsione? Attraverso l’invio di buste incendiarie a destra e manca si farà senz’altro parlare dei compagni detenuti in Spagna, tutti ne parleranno, ma in che termini? Nei termini imposti dai media, naturalmente, che si premureranno di rafforzare l’idea già radicata in molti che, tutto sommato, se questi detenuti hanno dei paladini talmente privi di scrupoli forse il regime duro se lo meritano anche.

Il guaio è che chi pensa di essere più avanti, più radicale di altri, lo pensa per un motivo ben preciso. In questi casi, il motivo consiste nell’uso di certi strumenti: chi parla chiacchiera soltanto, chi attacca con le armi agisce. Tutti questi perfetti lottarmatisti sono innamorati dei loro strumenti, li amano a tal punto che cessano di vederli come tali per considerarli il loro fine, la loro ragione di vita. Non scelgono il mezzo in funzione del fine, trasformano il mezzo in fine. Se io voglio uccidere una mosca sul muro uso un giornale arrotolato, se voglio uccidere un topo uso un bastone, se voglio uccidere un uomo uso una pistola, se voglio demolire un palazzo uso la dinamite. A seconda di ciò che voglio fare, scelgo il mezzo che ritengo più adatto fra quelli che ho a disposizione. Il lottarmatista, no. Lui non ragiona così. Lui vuole solo usare il suo strumento preferito, quello che gli dà più soddisfazione, quello che lo fa sentire più radicale, quello che gli permette di crogiolarsi nella propria celebrità mediatica, e lo usa indipendentemente dallo scopo che si prefigge: spara alla mosca, mitraglia il topo, dinamita l’uomo e se potesse userebbe la bomba nucleare per il palazzo. Per il lottarmatista, la radicalità di una lotta non consiste nella sua estensione e profondità, nella sua capacità di mettere in discussione la pace sociale. Per il lottarmatista, la radicalità è solo una questione di volume di fuoco: una pistola calibro 22 è meno radicale di una pistola calibro 38, che è meno radicale di un kalashnikov, che è meno radicale di una bomba al plastico. È per questo motivo che, assetato di fama e reso ottuso dalla propria idolatria tecnicistica, spedisce buste incendiarie a semplici dipendenti per combattere il Fies. Fa quello perché è la sola cosa che sa fare, la tecnica non accompagna l’intelligenza ma la sostituisce, e perciò non si chiede nemmeno per un attimo se il mezzo sia adeguato al fine che vuole raggiungere. Quanto agli scrupoli non ne ha per il semplice motivo che nella sua testa tutto è diviso fra bianco e nero, senza sfumature di colori. Da una parte c’è lo Stato, dall’altra ci sono gli anarchici. In mezzo non c’è nessuno. Se non si è anarchici si fa parte dello Stato, quindi si è nemici. Gli sfruttati sono responsabili della condizione che subiscono tanto quanto gli sfruttatori che gliela impongono: sono tutti nemici, perciò cazzi loro.

Stranamente questa logica tipicamente militarista sta facendo breccia anche tra alcuni compagni anarchici, fra cui non manca chi è pronto addirittura a sostenere i kamikaze palestinesi. Incredibile se si pensa che da simili livelli di abiezione erano lontani pure i rivoluzionari russi di fine ottocento: autoritari avanguardisti sì, ma con un’etica rigorosa, pronti ad uccidere uno sfruttatore ma senza toccare un capello ad uno sfruttato. E se questa attenzione l’avevano degli autoritari, figuriamoci gli anarchici! Gli esempi, in tal senso, abbondano: persino Schicchi, noto anche per il suo tremendismo verbale, è stato capace di tornare dove aveva depositato una bomba per togliere l’esplosivo, accortosi che qualche estraneo avrebbe potuto rimanere ferito.

Ma l’immagine dell’anarchico del passato, perfetto galantuomo, è troppo buonista, poco gratificante per certi anarchici odierni. Ci sono anarchici che riescono a dare un senso alla propria vita solo se si sentono colpiti dalla pubblica riprovazione. Più una cosa viene condannata, più ne sono attratti. Più i giornali e i magistrati dipingono gli anarchici come persone senza scrupoli, più loro si affrettano a ricoprire questo ruolo. Privi di ogni prospettiva propria, si fanno dire dai loro nemici cosa sono e cosa devono fare. Forse non siamo ancora arrivati ai livelli di un Enzo Martucci, disposto a soffocare nel sangue tre quarti dell’umanità pur di raggiungere i suoi scopi, ma poco ci manca.

Un’altra delle conseguenze di quanto sta accadendo è il totale offuscamento del significato del termine „insurrezionalista“, che oggi viene ormai usato come semplice sinonimo di „violento“ o anche solo di estraneo al dialogo con le istituzioni. Insurrezionalisti sono gli anarchici che mettono bombe, insurrezionalisti sono gli anarchici che infrangono vetrine, insurrezionalisti sono gli anarchici che si scontrano con la polizia, insurrezionalisti sono gli anarchici che contestano le manifestazioni di partito e via catalogando. Di idee, neanche a parlarne. In un certo senso si sta ripetendo esattamente quanto successe all’inizio del secolo con l’aggettivo „individualista“. Una volta passata la convinzione che individualisti fossero tutti coloro che sostenevano gli atti di violenza individuali, ecco che questo termine è stato applicato un po‘ dovunque e spesso e volentieri a sproposito. Nella frenesia degli avvenimenti, chi si è fermato a chiarire l’equivoco che andava diffondendosi? Il ricorso alla violenza individuale non è affatto una caratteristica tipica dell’individualismo, tant’è vero che ci furono anche anarchici individualisti pacifisti (come Tucker) o non-violenti (come Mackay). E ancora, forse che Galleani era individualista? Eppure era sostenitore delle azioni individuali… come lo fu in certe circostanze lo stesso Malatesta. E non sono mancati nemmeno comunisti favorevoli agli atti individuali. Purtroppo l’equivoco si radicò a tal punto che ci fu addirittura chi si dichiarò individualista pur non essendolo affatto (come fece Schicchi al processo di Pisa). Malintesi, incomprensioni, fraintendimenti… non è davvero il caso di alimentare una simile confusione. Che lo facciano i media, è cosa ovvia e comprensibile. Ma perché farlo anche noi?

L’insurrezione è un fatto sociale. Non è la sfida a singolar tenzone contro lo Stato lanciata da chi crede che la massa sia pecorume buono solo per la tosa. Il ricorso alla violenza è inevitabile e necessario in un progetto insurrezionale, lo è durante il momento insurrezionale e lo è anche prima (poiché l’aspetto sociale dell’insurrezione non può essere mai portato a giustificazione dell’attendismo). Dunque, lo è anche adesso. Ma questa violenza non può diventare autonoma dal resto del progetto, non può pensare di sostituirlo. È la violenza ad essere strumento al servizio del progetto, non il progetto ad essere pretesto al servizio della violenza. Chi pensa che una insurrezione non sia possibile, avendo perso (o mai avuto) fiducia nella possibilità che gli sfruttati si ribellino, dovrebbe rendersi conto della distanza che lo separa da ogni prospettiva insurrezionale. Se vuole combattere la sua guerra privata contro il potere, perché tale è diventata, che lo faccia pure ma senza spacciarla per guerra sociale. Se vuole passare alla storia per le sue azioni, perché di pura autogratificazione si tratta, si accomodi pure sotto i riflettori dei mass-media ma senza pretendere di trascinarsi dietro il resto del movimento.

Che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, è cosa ovvia. Che qualcuno pensi di essere al di sopra di ogni critica e quindi di dover essere solo applaudito, compreso, seguito, oltretutto senza essersi mai degnato di spiegare le ragioni del proprio metodo, lo è molto meno.